Come parleremo con i brand del futuro? Ne ho parlato con Alberto Maestri
Ciò che lega marche e archetipi vale anche al tempo delle tecnologie esponenziali, degli assistenti virtuali e delle piattaforme digitali? Come interverrà la Voice Technology nella creazione dei nuovi brand e nelle future azioni di marketing? Generazione C, Generazione D e brand disloyalty. Cosa sono questi nuovi elementi all’orizzonte? Google Assistant, Alexa e Siri non hanno saputo dare delle risposte a tutte queste domande, ma con Alberto Maestri abbiamo fatto un grande viaggio.
Alberto è un grande esperto delle dinamiche con cui brand, persone e organizzazioni agiscono e si trasformano..
Lui è anche l’autore di AI Brands, Franco Angeli Editore.
La voice technology entra in gioco in qualsiasi punto del customer journey, a seconda della fase della fase progettuale degli obiettivi di progetto. Diciamo che l’AI conversazionale io la vedo proprio come un’abilitatrice di dinamiche che ormai sono abbastanza consolidate e abbastanza urgenti.
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I punti salienti
00:51 Presentazione di Alberto Maestri
01:21 Brand e archetipi al tempo delle tecnologie esponenziali
06:42 Cosa sono gli Autonomous Brand?
08:57 AI Brands: dove entra in gioco la Voice Technology?
12:43 Potenze di calcolo praticamente e dati illimitati: dove siamo diretti?
17:30 Generazione C, Generazione D e brand disloyalty
23:59 Una nuova avventura editoriale
25:10 Il futuro di Voice Technology e AI conversazionale
26:55 Take away
Un estratto dell’intervista con Alberto Maestri
In un passaggio di Voice Technology scrivi “Ora, la domanda diventa la seguente: i discorsi che legano marche e archetipi valgono anche al tempo delle tecnologie esponenziali, degli assistenti virtuali e delle piattaforme digitali? Certo”. Vorrei provare a semplificare questo concetto e a fare qualche esempio.
È un sicuramente è un tema abbastanza complesso, per adesso più un tema di pensiero, ma diventerà presto anche “di azione“.. ovvero sarà sull’agenda dei marketers, e soprattutto dei brand manager a tendere. C’è una “parolaccia” nel marketing, soprattutto nel branding, che si chiama “branding archetipale“. Il branding archetipale nasce con la psicologia, quindi il tema degli archetipi, insomma sono temi noti, affrontati da diversi autori.
L’ambito “branding” è stato affrontato più o meno vent’anni fa. C’è un libro pioniere, in qualche modo la Bibbia, che si chiama “The hero and the outlaw“, quindi “l’eroe e il fuorilegge” in cui alcune ricercatrici hanno realizzato un’intensa ricerca andando a studiare tantissimi brand iconici, chiedendosi cosa ha reso tali brand iconici. E sono andati a mappare quelli che sono i 12 archetipi che una marca può embeddare, può far propria, nel momento in cui vuole diventare iconica.
Nello schema c’è la ruota con i 12 archetipi e intorno ci sono anche le derive degli archetipi, perché naturalmente quello che dicono le autrici è:
attenzione perché se si esagera con un archetipo si può scadere nella sua deriva.
Cioè l’archetipo di per sé è qualcosa di più o meno sempre virtuoso, ma se si eccede nella comunicazione stressando troppo l’archetipo ci sono anche delle derive che invece tendono ad essere negative. Ecco che quindi naturalmente, il tema degli archetipi è diventato un qualcosa di molto importante.
Oggi c’è una vera e propria guerra simbolica, per cui è molto più difficile posizionarsi su un singolo archetipo, ma i brand vincenti devono fare dei mélange, ad esempio, con due archetipi. E quindi esistono tecniche che vengono messe in atto per aiutare le marche a diventare in qualche modo iconiche.
Ora il tema qual è!? Che l’archetipo indirizza al marketing ed i contenuti, ovvero se io sono posizionato come un “sovrano“, la mia architettura di messaggio dovrà essere coerente e consistente con quel posizionamento archetipale. Paradossalmente se io adottassi una comunicazione da “creator“, che di per sé è una comunicazione positiva, in realtà vado a diluire il mio archetipo.. cioè se io sono “sovrano”, devo essere “sovrano“, non posso adottare comunicazioni come se fossi un “creator“.
Nel momento in cui noi indirizzano il nostro messaggio, la nostra comunicazione di marketing, andiamo a dare un imprinting. Quando entrano in gioco le nuove tecnologie, e tu sei molto più esperto in questo.. Però se io dico “apprendimento automatico” c’è da considerare, non dico il tema della casualità, però il fatto che la macchina apprendendo per prove ed errori o comunque dalle interazioni senza che ci sia un pattern definito ex-ante, può andare in qualche modo a orientarsi e a dare comunicazioni (pensiamo a un chatbot) non consistenti con l’archetipo che la marca embedda. Questo diventa un problema per il brand manager che ha da sempre la mission di garantire la consistenza dei messaggi in linea con quella che è la strategia di marca e di storytelling.
Quando per esempio parliamo con un chatbot e quando parliamo con un maggiordomo digitale con il virtual assistant, che si muove anche nei meandri del linguaggio e si muove senza che ci siano dei pattern preconfezionati, possiamo ottenere delle risposte che non sono necessariamente coerenti e consistenti con quello che il brand è a livello di brand identity e a livello di posizionamento. Ecco che allora naturalmente, il concetto delle marche che prendono vita nelle tasche delle persone è un po’ questo.. noi abbiamo potenti assistenti virtuali anche nei nostri smartphone!
Prendono vita in senso positivo, o anche di sfida (non necessariamente negativa) per i brand manager, che appunto hanno nella cura della brand experience, nella consistenza della brand experience la loro missione.
Nel tuo ultimo libro, che si intitola “AI Brands” parli di Intelligenza artificiale, machine learning e piattaforme digitali a supporto del brand. Dove entra in gioco, se entra in gioco, la voice technology, o comunque l’AI conversazionale?
Entra in gioco in qualsiasi punto del customer journey, a seconda della fase della fase progettuale degli obiettivi di progetto. Diciamo che l’AI conversazionale io la vedo proprio come un’abilitatrice di dinamiche che ormai sono abbastanza consolidate e abbastanza urgenti. L’AI conversazionale è una piattaforma digitale a tutti gli effetti.. quando parliamo con un Google Home o con Alexa, di fatto si mettono tra noi e “qualcosa”, tra noi e il bisogno, e in termini di marketing tra noi e il brand.
Le piattaforme digitali sono nate con tante retoriche, e la retorica più interessante è quella della disintermediazione. Se noi ricordiamo i primi messaggi, non lo voglio citare, ma lo cito il Cluetrain Manifesto è materiale vecchio, ma sempreverde se lo leggiamo.. quindi vuol dire o che siamo stati particolarmente lenti, oppure che sono stati particolarmente bravi i nerd che lo hanno scritto. Però naturalmente tutto il tema della disintermediazione è un tema caro per quanto riguarda il “web sociale” (per non citare “Web 2.0” che è altrettanto vecchio).
Oggi le piattaforme digitali sono dei veri e potentissimi intermediari.. quindi ci troviamo difronte alla classica pubblicità, la classica comunicazione, “Perché vai in agenzia viaggi? Vieni su Airbnb!“, quindi una piattaforma intermedia con cui Alberto può parlare con Alessio e prendere una camera o un appartamento.
Il tema qual è!? Che naturalmente dietro c’è il dato.
Le piattaforme sono ossessionate dal dato potrebbero fare qualsiasi cosa.. è “casuale“, si dice, che Airbnb faccia quello che fa, perché nel momento in cui ha una quantità di dati in suo possesso può fare a tendere veramente ciò che vuole. Ci sono delle survey a livello internazionale, che chiedono, ad esempio all’utente: “tu i tuoi soldi li vorresti dare alla banca o ad Amazon?” e le persone rispondono “ad Amazon!“, perché ovviamente ha della reliability, ha la fiducia, e tutta una serie di asset.
Quindi le piattaforme nel tempo si sono posizionate come nuovi e potentissimi intermediari. È come se Booking.com fosse una nuova, ma potentissima agenzia viaggi.. perché potentissima? Perché ha dalla sua parte il dato e tutto quello che ne consegue.
Si dice sempre che una “data strategy” ha anche un'”AI strategy” quindi ormai sono fondamentalmente connesse tra loro e sono la stessa cosa.
Ed ecco che appunto l’AI conversazionale è un modo con cui andare a umanizzare il brand, con cui andare in qualche modo a umanizzare le comunicazioni di marca, all’interno di quella che si chiama “platform economy“. Platform economy in cui, ripeto, ci sono tanti intermediari, in cui per i brand diventa sempre più difficile andare a conversare direttamente con l’utente. Quindi l’AI conversazionale, anche in questo caso può sicuramente aiutare.. non a caso sempre più brand stanno sviluppando le proprie per andare a interagire direttamente con tutti noi.
Nei prossimi 10 anni vedremo sviluppi nel campo di computer quantistici.. avremo dati e potenze di calcolo praticamente illimitate.. Dove arriveremo, secondo te?
A livello di brand, quello che vede, è una specie di paradosso. Per anni abbiamo lavorato tanto sull’attività di brain building, e quindi su attività che andassero a posizionare correttamente nella mente, “nel cuore” ci direbbe Kotler, “nelle mani” ci direbbero i manager più concreti, delle persone la marca. Prima sviluppando la marca, poi effettivamente andando a veicolarla nella nostra della nostra vita. Quindi un’intensa e costosa attività di brand building. Pensiamo, ad esempio, alle società globali e a quanto hanno speso in advertising, comunicazione di marca, e comunque in attività di customer engagement.
Quello che sta accadendo oggi con lo sviluppo della tecnologia.. perché attenzione al problema della tecnologia è che noi siamo in qualche modo, non dico privilegiati, però siamo “BIASed“.. cioè noi siamo affamati di tecnologia. Il mondo là fuori invece, se vediamo una classica curva di adozione di un’innovazione, è impaurito dalla tecnologia.. è reticente, perché significa stressare il cervello stressare la mente. Quindi a fianco del processo di questa estrema evoluzione tecnologica io vedo una la scomparsa della tecnologia.. cioè la vera tecnologia è quella che diventa invisibile.
Giuseppe Stigliano, CEO di Wunderman Thompson Italy, dice:
la tecnologia come la barzelletta se la devi spiegare vuol dire che non funziona!
Per il marketing vedo quasi una scomparsa, non dico dei brand, però della sensazione che noi abbiamo delle connessioni con i brand.. perché è perché la tecnologia che vince è quella amica, quella di cui non ci accorgiamo.
In questo caos di contenuti e mediatico, probabilmente vince il brand che si mette in modo, non dico umile e modesto, però in modo sincero al fianco della nostra vita e ci aiuta senza urlare troppo.
Quindi dove la tecnologia accelera, la vera variabile a mio avviso è quanto poi questa accelerazione verrà adottata dalla persona comune.
Perché poi come dire sappiamo che la prova del nove appunto lo fa sempre l’audience, e i brand, in qualche modo, tra le grandi operazioni di brand building del passato e questa “invisible technology” probabilmente si posizioneranno sempre più come “amici“, sempre più “umani“.. che è la strada che poi anche le interfacce conversazioni vanno a dare al brand. Quindi proprio come delle persone al fianco delle persone, per aiutarle vivere la propria quotidianità.
Contenuti di approfondimento
- Alberto Maestri (sito web)
- AI Brands (Franco Angeli Editore)
- The Hero and the Outlaw
- Cluetrain Manifesto
- Battle of the brands: Consumer disloyalty is sweeping the globe